« Strano
destino, quello degli stereotipi. La gente comune si accorge che esistono
quando si realizzano due condizioni : se riguardano il proprio gruppo di
appartenenza e se le attribuzioni che essi propongono hanno valenza negativa
[.....].
Nell’interpretazione
di Lippmann le conseguenze degli stereotipi sono tendenzialmente negative
proprio per la loro rigidità, per il fatto di essere impermeabili di fronte
alle disconferme dell’esperienza e per la loro potenziale funzione di
distorsione della realtà”
(L. Arcuri, M. R.
Cadinu, Gli stereotipi)
Non ho mai capito
perché le signore di paese si facciano tute la tinta color lilla. Un delirio
psichedelico da funghi allucinogeni. Però si stupiscono del mio colore rosso.
Autoritariamente
punk”
(Chiara)
Ebbene sì, vivo in Africa, più precisamente in Senegal e no, non sono venuta in missione ad aiutare nessuno, forse solo a cercare me stessa.
Da qualche anno scrivo un blog sulla mia vita qui, intitolato Dakarlicious. Dai, sforzatevi un attimo e vi ricorderete di sicuro la famosa canzone delle Destiny's Child che ha ispirato il titolo del mio blog ed uno dei miei tatuaggi.
Un pezzo old school che mi ha sempre fatto sorridere, nato dalle continue critiche che Beyoncé riceveva sul suo fisico importante, così poco fashion. E quelle cosciotte, oddio, mia madre le avrebbe detto di non mettere le gonne corte, l'avrebbe torturata seguendola per casa con una gonna monacale a pieghe nere che arriva sotto il ginocchio pregandola di portarla per il bene del quito tacere delle pettegolone di paese dalle tette cadenti e l'inguardabile pelo lungo che fa capolino dal neo del viso. Ecco, la gonna a pieghe nere va bene ma al ginocchio e rigorosamente non sotto, specialmente se non si è abituati a seguire la moda bon ton e burlesque di una delle regine indiscusse della bellezza, Dita Von Teese
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Fonte: caylaadams.wordpress.com
Beyoncé, stanca di commenti ed incitamenti a diete di ogni tipo, scrisse questa canzone per mettere a tacere tutti. Le cosce importanti possono essere un punto forte (scusate il gioco di parole), specialmente se accompagnate da un guardaroba attento, un make up perfetto e una personalità scoppiettante.
"I don't think you ready for this jelly,
I don't think you ready for this jelly.
I don't think you ready for this
Is my body too bootylicious for ya baby?"
Mal sopporto le immagini statiche e ancor meno, gli stereotipi perpetuati nello spazio e nel tempo. L'Africa dei baobab e dei leoni, delle capanne e delle treccine è vecchia e stantia. In Africa c'è ben altro e la bellezza, la cura di sè e la moda sono imperativi di ogni donna africana.
Dakarlicious è nato con l'intento di mostrare un'altra Africa, urbana e fashion, evoluta e creativa. So damn Licious, insomma.
(Per chi volesse dare un'occhiata: http://blog.libero.it/Dakarlicious/)
"L’estate è arrivata e con la sua arroganza
ci ha imposto un caldo soffocante e le spiagge colme di persone. La BCAO è
talmente piena che possiamo quasi sfiorare il sudore dell’altro e, con una mano
a coprire gli occhi da un sole accecante, si passa il tempo a guardare una
barriera infinita di uomini. Tutto d’un tratto il sapore amaro di un’immagine
d’altri tempi, un tuffo nella Goré del 1700. Le ragazzine arrivano a gruppi di
tre, quattro e, ridacchiando tra loro, propongono i primi madd. Ho la lingua
che brucia e il sapore del Maggi mescolato al sale. Odio agosto, continuo a
ripetere a me stessa. Il Senegal è fatto per i senegalesi che lo vivono ogni
giorno, che lo conoscono, lo amano, che hanno deciso di soffrire con lui e non
di quelli che vengono per una settimana, che lo mistificano, lo idolatrano, che
gli fanno calzare a pennello la definizione di paese in via di sviluppo,
arrivando con l’arroganza tutta occidentale di vecchi esploratori d’altri
tempi. No. Qui non è diverso da dove vieni tu. Qui si vive, come da te; si
piange, come da te; qui si ride, come da te; qui si va in discoteca, come da
te; qui si segue la moda, come da te; qui si fa l’amore, come da te; qui si
esce con gli amici, come da te; qui è un paese, come da te. Non serve sforzarsi
di cercare il selvaggio, l’esotico, il differente. Sei solo tu che lo vedi. Non
serve che prendi foto ai rasta che escono dall’acqua o ai bambini che in gruppo
vengono verso di te, curiosi; non serve farti le trecce o metterti in gran bùbù
per sperare l’integrazione. Ridicolo. Ogni tanto passo un piccolo bicchierino
di the, io non lo bevo. Non mi piace, punto. Non si è obbligati a mandare giù
qualsiasi cosa per sentirsi parte della comunità. Sono semplicemente io.
Incredibilmente compatibile con il Senegal//" (da: http://blog.libero.it/Dakarlicious/10405153.html?ssonc=1824260286)
Dalla creazione del mio blog un nutrito fan club di anti Chiara, donne con problemi di peso e di autostima che mal sopportano un linguaggio spesso duro ma diretto. L'Africa deve restare un sogno erotico ups, pardon, "esotico" dove anche la più trasandata può sognare di sentirsi miss mondo.
Uno specchio è (un investimento) per la vita, care donne, altro che i diamanti!
E allora sbarcano a frotte donne cicciottelle dall'abbiagliamento stile "coro della chiesa di paese", scarpa da trekking e capello dalla ricrescita improponibile. Siamo in Africa suvvia! E allora via di color kaki per mimetizzarsi nella foresta, gonne sotto il ginocchio e ciabatta (l'anti concezionale che fa miracoli), magliette sformate e borse create da non si sa chi con pezzi di stoffa colorata che mi ricordano così tanto i clown dei circhi.
Gli amici africani rimangono perplessi. Perché tanta trasandatezza una volta messo piede nel continente regno della femminilità e della cura?
Sexy?
Alternativo?
Obbligatorio?
Fonte: www.google.it
Ahahahahahahahhhhhhhhh! Come direbbe la mia cara Madea (alias Tyler Perry): Lord have mercy!
L'Africa è fashion belle, ce la facciamo a farci uno shampoo e a prendere un vestito della nostra taglia e non quattro taglie più grandi?
Fonte: Be Black, Be Swagg pagina Facebook
Chiaro il concetto?
"In paese sono la figlia di Gianni, quella un pò stramba che lavora in
Africa. Ogni qualvolta arrivo le persone mi salutano come non me ne fossi mai
andata e, quegli sguardi che una volta apparivano cosi rigidamente giudicanti,
oggi sono lievi, morbidi volti di rughe contadine.
Ho imparato a sorridere e a parlare con la gente. “Che bella che sei” mi ha
detto qualche giorno fa una signora amica della mia anziana zia. Non ricordo il
suo nome ma conosco la sua figura, la ricordo da quando ero piccolina. Mi
accarezzava il viso, mentre parlava, un enorme sorriso che lasciava intravedere
un rosseto rosso a tratti sbavato. “Mi ricordo quando eri alta così e andavi in
bicicletta con il papà” ha continuato prima di lanciarsi in un lungo monologo
sulla sua malattia, su come avesse perso i capelli e sull’amore che la lega a
suo marito da ben cinquant’anni. Ho ascoltato con interesse. Il Senegal mi ha
insegnato che non c’è nulla di più arricchente di ascoltare i racconti degli
anziani.
Dopo poco, riprendendo a braccetto mia zia, mi sono diretta dalla mia parrucchiera, quella storica di
paese e quelle che, per intenderci, è sempre riuscita a pettinarmi come
desideravo.
“Mia nipote è brava, ha studiato tanto sa, mica come me che ho la seconda
elementare” ha detto mia zia ad una signora che aspettava di permanentarsi come
d’obbligo. “Lei lavora lontano” ha continuato tentennando per poi girarsi verso
di me “Dov’è che lavori Chiara che mi sono dimenticata?”. “In Senegal, zia” ho
risposto sorridendo, precisando poi “in Africa. A-F-R-I-C-A!” cercando di
scandire bene. “Davvero?” mi ha chiesto sorpresa la signora pronta per una
cotonatura degna dei migliori anni ’80 e tinta color lilla “allora sei andata
ad aiutare i bambini poveri”, ha continuato, candida.
“In realtà no. Non sopporto i bambini. Lavoro in televisione”, ho risposto
con un sorriso da premio Oscar. Ancora ora, il fermo immagine dello sguardo
perplesso della signora e mia zia che annuiva fiera, come se avessi appena
vinto il titolo di Miss Italia"
“Uno stereotipo è
un’ impressione fissa ed immutabile che si adatta molto poco alla realtà che
presume di rappresentare; esso è il risultato della nostra tendenza a definire,
prima di osservare”
(D. Katz, k.
Braly, Racial prejudice and racial
stereotypes)
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